[di Pierluigi Sullo, giornalista, già vicedirettore de Il Manifesto; direttore di Carta; collaboratore di riviste politiche e sociologiche] E se, arrampicandoci sulle macerie dopo l’ondata del virus, scoprissimo un panorama ignoto, come dopo una colata di lava, e dov’era Pompei c’è un terreno brullo e fumante? Nel Novecento, le grandi trasformazioni, come le chiamava Karl Polanyi, sono state l’esito di grandi crisi o catastrofi. La prima guerra mondiale, l’assassinio industriale di massa che diede il via al fordismo, creò le condizioni per la rivoluzione russa, prima, e, al rovescio, per il fascismo e il nazismo; il New Deal, la politica economica statalizzata, fu creata dal crollo della borsa nel ’29; la seconda guerra mondiale e le immani distruzioni hanno fondato l’impero statunitense; la crisi di Chernobyl è stata l’inizio di un indispensabile nuovo corso dell’energia; le grandi masse di migranti in movimento hanno, dalla fine degli anni ottanta, cambiato i connotati della politica in Europa; la fine del secolo è stata, per vari versi, la fine del liberismo senza limiti, cioè la guerra globale e la crisi finanziaria del 2008; nel frattempo, la catastrofe climatica e naturale ha investito il modo stesso di concepire la riproduzione sociale.
E ora? Il virus sta smantellando le residue basi della vita ai tempi del consumo, i suoi pilastri ideologici.
Da qualche anno non vado a Venezia, ma l’ultima volta ancora esisteva, a dominare la ferrovia da Mestre alla laguna, un altissimo schermo su cui si alternavano l’ora e la data, la temperatura e l’andamento della borsa. Fenomeni naturali. Ma ora la temperatura è impazzita. E l’indice di borsa non appare, ai più, la misura del benessere dell’economia. Nel momento in cui la signora Lagarde, presidente della Banca centrale europea, ha detto che “non siamo qui a moderare gli spread tra gli stati”, le borse europee e quella di New York hanno avuto il peggiore crollo della loro storia, o quasi. La finanza è apparsa per quel che è: un parassita sul corpo vivo della società, inaffidabile e interessata solo ai suoi guadagni, del resto non importa nulla.
A cascata, il “privato”, mito dell’ideologia neoliberista alimentato in ogni modo dagli stati nazionali, che si sono spogliati dei loro doveri per cedere alle imprese private funzioni essenziali, dagli acquedotti ai trasporti e, ora si vede bene, alla sanità pubblica, quel mito sta cadendo a pezzi. Qualcuno è arrivato a proporre, ragionevolmente, di requisire le cliniche private che da decenni strappano a morsi pezzi del servizio sanitario nazionale, sottraendogli risorse e “mercato”. Nella Lombardia epicentro del virus, pochi anni fa si tenne un referendum, promosso dall’allora presidente leghista Maroni, per privatizzare del tutto la sanità regionale. Ma nessuno lo ricorda. E come dice il mio amico Vittorio Agnoletto (che, essendo medico, tiene una trasmissione quasi ininterrotta, a Radio Popolare, per dare consigli, aiutare, spiegare), nel frattempo la sanità di base, la prevenzione, ossia il vero scopo della sanità pubblica, è stata distrutta, così che il virus si abbatte senza filtri sugli ospedali.
E’ in corso una vera strage di miti, di atomi ideologici liberisti. Come quello dei viaggi turistici e di ogni altro tipo, infiniti, senza misura come è lo sfruttamento della natura e come è la “crescita”, milioni di aerei e miliardi di passeggeri, stare due giorni a Barcellona e inserirsi nel fiume di turisti che affollano le Ramblas, rendendole impossibili, tanto che i più furbi, i ricchi, dicono: ma no, basta evitare le Ramblas, ci sono tante strade ancora belle, nel centro storico (e questo vale per Venezia e San Marco, per Roma e il Colosseo, per Milano e il Duomo…). E che dire del disastro dell’industria delle crociere, tanto arrogante da invadere i canali di Venezia e oggi sinonimo di lazzaretti galleggianti che tutti respingono?
Allo stesso tempo, si scopre che è sempre più difficile procurarsi le mascherine che proteggono il personale sanitario dal contagio, perché, ha spiegato la Protezione civile, i produttori italiani hanno riconvertito ad altri prodotti, dato che i margini di profitto erano scarsi. Tanto, le mascherine si possono importare dalla Cina. Appunto. E ora, come in una guerra l’industria viene indirizzata verso quel che è utile allo sforzo bellico, si progetta di riprendere a produrre mascherine in Italia, il margine di profitto non ha più importanza.
E sì, tornano gli stati, sebbene indeboliti da decenni di liberismo e di diffamazione di tutto ciò che è “pubblico”, dall’istruzione al welfare. Ora ordinano la società, proibiscono e cercano – o così pare in Italia – di soddisfare i bisogni della società, a partire dalle macchine per la ventilazione polmonare, mentre medici e infermieri e personale sanitario in generale resistono con il superlavoro, infettandosi e inventando soluzioni a problemi insolubili, come trovare sempre più letti di terapia intensiva.
Da dove viene questa dedizione? Perché hanno tanto coraggio? Perché il terremoto, forse, ha fatto tornare in superficie il substrato etico di quella professione. E l’etica non è una faccenda che possa essere messa sul mercato, è un a-priori. Tanto più se vincolata a un senso di comunità. In questi giorni tutti i telegiornali illustrano e enfatizzano le azioni collettive che si fanno dai balconi. Chi intona con i vicini, cantando e suonando strumenti, inni e canti. Chi si dà appuntamento per un grande applauso alla gente che resiste negli ospedali. Qualcuno di sinistra deplora i tricolori e l’inno nazionale. Roba di destra. Ma siamo sicuri? E se la gente, costretta in casa, stia facendo qualcosa di molto diverso da una rivendicazione nazionalista o roba del genere? Prima di tutto, cercano di condividere la loro condizione di reclusi; poi, usano quel che hanno a disposizione per comunicare tra loro, chi appunto l’inno nazionale e il tricolore, chi “Azzurro”, la canzone di Celentano, chi la canzone napoletana della tradizione (oi vita, oi vita mia), chi Bella Ciao, inno universale, e le bandiere dell’arcobaleno. Tra il 2002 e il 2003, ai tempi dell’ultima guerra in Iraq, si calcolò che ai balconi erano state appese tre milioni di bandiere della pace, e un mio amico francese, venuto in visita, di fronte a quello spettacolo scoppiò in lacrime, tale era la commozione. Sta succedendo qualcosa del genere: noi siamo uniti, ci aiutiamo a vicenda e sosteniamo i nostri fratelli in camice bianco.
E nel frattempo il volontariato di cui questo paese è ricchissimo organizza la cura di chi una casa non ce l’ha, e degli anziani soli, chiusi, più a rischio di tutti, come raccontano i centri sociali, tra molti altri, a San Lorenzo a Roma o a Venezia. Perché i vecchi sono la nostra memoria, perciò li amiamo, li tuteliamo come possiamo, e gettiamo via, come scoria, la narrazione tossica di un mondo fatto di giovani, flessibili e consumatori, viaggiatori e dispersi nell’universo caotico della Rete. Non che il web non sia utile, lo usiamo anche noi, certo, ma non lasciamo che ci sommerga, che sostituisca nella nostra mente il virtuale al reale.
In un certo senso, si può sostenere che il virus ha sì fatto risorgere gli stati ma ha spazzato via la politica politicante. Abbiamo passato mesi afflitti dai duelli tra Conte e Salvini, tra Zingaretti e Renzi. Tutta schiuma velenosa, il governo ora vuole apparire come il servitore della società, il luogo dove si prendono le decisioni utili, e forse non è proprio vero, a posteriori si vedranno gli errori, i ritardi, le furbizie e i furti, chissà, ma adesso ci fidiamo, per forza, ma siamo vigili, noi cittadini, troviamo il modo di farci sentire pur essendo infinitamente più disciplinati e seri di quanto gli stereotipi razzisti dicono: gli italiani senza senso civico, pigri, furbi, che mangiano pizze e fanno eternamente la siesta. Quel che circola, mi pare, è un certo orgoglio, anche in quelle bandiere esposte alle finestre, di più e più seriamente, profondamente, di quando la nazionale di calcio stava vincendo la coppa del mondo. Forza Italia, come dalle finestre della città cinese sequestrata si gridava “forza Wuhan”.
Ma, se tutto questo ha un senso, quale sarà il panorama, dopo la colata di lava? Quale grande trasformazione ci possiamo aspettare, e anzi per fare cosa dovremo rimboccarci le maniche? Se l’interesse pubblico, il benessere collettivo, vengono prima di tutto, allora si potrà fare un censimento dei bisogni, delle urgenze, di ciò che rovescia i miti neoliberisti. Bisognerà avere la fantasia per fare un passo di lato. Al primo posto non viene più l’economia, ma la comunità, parola che comprende in sé la natura, l’aria e l’acqua, i boschi e gli animali. Il nostro comunismo è quello di San Francesco, disse una volta, con grande scandalo dei marxisti, Etienne Balibar. Gli stati va bene, forse, ma moderati da una democrazia molecolare. Una sanità diffusa e altrettanto capillare. La scuola e l’università ricostruite nel tempo nuovo. Un cambio radicale nelle politiche migratorie, perché le sofferenze dei migranti ci rimbalzano addosso. E il restauro: delle città che ora si mostrano belle, senza auto, e sane, delle montagne e dei boschi per fermare le frane e respirare, del regime dell’acqua e dello stato degli acquedotti, di una condizione degna per gli animali, la ri-creazione dei panorami stravolti dalla bulimia di cemento, la fine delle emissioni di CO2, e moltissimi eccetera.
Ciascuno di noi conosce, ormai, queste urgenze, ma non sa come afferrarle. Forse arrampicandosi sulle macerie provocate dal virus si vedranno i sentieri da tentare, un passo alla volta ma insieme. Chi? Una canzone di tanti anni fa, rivoluzionaria e pacifista (parole che sono sinonimi), diceva: imagine that the peoples… I popoli, la gente, o come dicono gli zapatisti “los de abajo”, che in questi decenni sono stati dominati da quella di Saskia Sassen chiama “la classe globale”, che vive in una finzione perenne, è sradicata, crea le sue isole fortificate, sono gli agenti della finanza globale e di tutto quel che vi è connesso, la classe che ora conosce la sua sconfitta, o almeno decadenza. A meno che, passata la bufera, tutto tornerà come prima. Chi lo crede alzi la mano.
20 marzo 2020