C. Grandi, A. Otaviano, “Amazzonia, peste & Covid: riflessioni tra due sponde”
C. Grandi, A. Otaviano, “Amazzonia, peste & Covid: riflessioni tra due sponde”

GLI INFINITI SEMINA RERUM

[di Casimira Grandi, UNITN, Italia] La Terra sta vivendo la prima pandemia della globalizzazione matura. E gli italiani dovrebbero recuperare l’orgoglio di avere dato al mondo il concetto di “isolamento”, introdotto dalla Repubblica di Venezia che di isole se ne intendeva… ; Venezia è un arcipelago in una laguna urbanizzata, in cui lo spazio sociale e statale sono sempre stati organizzati sulle isole, quindi non stupisce che in un’“isola” sia stato organizzato il luogo in cui gestire le epidemie e da cui deriverà la concreta definizione di “isolamento”.

In epoca moderna i più si ammalavano senza capirne la ragione e tanti guarivano in maniera apparentemente casuale, numerose furono le epidemie di peste che flagellarono la Serenissima nei secoli quando “peste” era quasi sinonimo di mortalità epidemica.  La -per allora- pandemia del 1348 estinse oltre 50 famiglie patrizie e su 110.000 abitanti ne perirono 37.000, ma per taluni addirittura 70.000. Purtroppo le fonti dell’epoca sono alquanto imprecise in merito, la statistica sanitaria era di là da venire e pure in modo approssimativo avveniva la trascrizione dei defunti nei libri parrocchiali, la cui tenuta sarà regolamentata solo dopo il Concilio di Trento. Comunque, la mortalità fu tale da destabilizzare i rapporti sociali ed economici dello Stato. Il massimo organo della Serenissima -Maggior Consiglio- decise di difendere la salute dei veneziani facendo seppellire i molti cadaveri di cittadini comuni in isole, mentre i nobili continuarono a fruire dei loro luoghi tradizionali di inumazione ma aumentando la terra sopra la tomba (non potendo fare fosse profonde stante l’acqua). L’esperienza devastante impose di attuare velocemente il rilancio economico, fatto mediante sgravi fiscali ai commercianti, intimando ai pubblici ufficiali di riprendere servizio con regolarità, incoraggiando l’immigrazione, ripristinando processioni e feste abolite per il rischio di contagio. Con esiti alterni. Perché la Serenissima non poteva rinunciare ai suoi commerci, né ai patrizi che li gestivano. Dopo vari eventi epidemici, nel 1423 giunse la seconda pestilenza devastante, con oltre 40 decessi giornalieri; il morbo era arrivato attraverso forestieri appestati: di qui una manovra sanitaria per proibire l’accesso in città a coloro che provenivano da luoghi infetti e punire molto duramente chi li ospitava. In quell’anno il monastero dell’isola di S. Maria di Nazareth venne adibito a ospedale permanente “ad alto isolamento” per malati contagiosi e con obbligo di ricovero, quale efficiente soluzione di prevenzione e contenimento[1]. Nihil novi sub sole è il caso di dire, ricordando i concetti di prevenzione e contenimento applicati oggi.

Nella dissolvenza della memoria le epidemie sono una costante, dagli splendidi monumenti votivi eretti dai nostri antenati per ringraziare il divino dello scampato pericolo ai più modesti ricordi di personali influenze. William H. Mc Neill, storico delle pestilenze, asseriva che bastava un evento accidentale nelle comunicazioni per estendere la catena infettiva sino a un nuovo territorio: e così è stato anche per Covid19[2]. Ma forse non sono sufficienti la virologia né l’epidemiologia per spiegare la devastante malattia che sta travagliando la Terra.

Lo storico globale Carlo M. Cipolla è stato il primo a individuare nello «squilibrio ecologico» la causa delle terribili pestilenze nel Trecento: e ancora una volta sono cause che troviamo anche nella contemporaneità[3]. Squilibrio tra sviluppo demografico ed economico, mancanza d’igiene personale e ambientale furono tutti fattori delle passate devastanti epidemie, che tra 1347 – 1351 assunsero connotati pandemici e in Europa endemici; su una popolazione di 100 milioni di abitanti ne morirono 30. Quando gli europei “scoprirono” l’America portarono la loro cultura e le loro malattie, alimentando infezioni dall’esito spesso letale in popolazioni prive di «un’esperienza precedente o di una accumulata immunità»[4], un pensiero che oggi non stupisce.  Quest’affermazione dello storico della medicina Giorgio Cosmacini propone all’attualità gli studi del prof. Antonio Otaviano Vieira jr, storico sociale brasiliano che ha studiato le epidemie presso gli indios amazzonici a metà Settecento, ma ciò che fa più riflettere è la vicinanza concettuale tra la gestione delle epidemie veneziane e quelle affrontate da Vieira: la salute di economia e politica sono stati gli stimoli determinanti, quella degli uomini in subordine[5].

Squilibri ambientale ed ecocriticità sono adesso le costanti che propone il bacino amazzonico all’attenzione del mondo, distraendo dalla insostenibilità esistenziale dell’antica genesi che a qualcuno ha dato il diritto (?) di chiamare questa terra “America Latina”. L’indissolubilità del tempo è parallela al permanere di talune cause, certamente quelle proposte dagli illustri storici citati, che l’analisi di Vieira focalizza con abilità sui moventi politici – economici odierni per spiegare il movente dell’interesse nello scenario amazzonico: quanto mai attuale nella contingenza che sta vivendo il Brasile.  E ricordando il grande Darcy Ribeiro

«il mio amatissimo popolo brasiliano […è] il mio dolore […e] la mia fierezza […] in ragione della sua povertà e del suo ritardo (che non sono però ineluttabili) […la mia fierezza] in ragione di tutto ciò che può divenire e diverrà: una civilisation tropicale, nata da un meticciato di razze e da una fusione di culture»[6].

Sono coordinate culturali di  rivolte del pensiero per «riaprire il tempo davanti a noi»[7].

[1] Il nome “lazzareto” deriverebbe invece da S. Lazzaro protettore dei malati di lebbra, che dal XII secolo erano concentrati nell’Isola di S. Lazzaro (oggi “degli Armeni”).

[2] W.H. McNeill, La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea, Einaudi, Torino 1981, pp98-99.

[3] C. M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industiriale, il Mulino, Bologna 1974 (I ed.), p. 208; IB. Cristofano e la peste, il Mulino, Bologna 2013. Il termine “peste” deriva per taluni da peius,  intesa come “la peggiore malattia”; per altri invece da pes, inteso come “soffio mortale”, etimo che lascia intendere l’origine diffusiva del morbo. ( N. Vanzan Marchini (ed.) Rotte mediterranee e baluardi di sanità, Skira, Venezia 2004).

[4] G. Cosmacini, L’arte lunga, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 104. Cfr. G. Berlinguer, Le mie pulci, UTET, Torino 2005.

[5] Cfr. G. Sapelli, Cleptocrazia, Guerini e Associati, Milano 2016

[6] D. Ribeiro, O Brasil como problema, Francisco Alvez, Rio de Janeiro 1995, p. 303.  

[7] M. Galzigna, Rivolte del pensiero, Bollati Boringhieri, Torino 2013.


EPIDEMIA NELLA CITTÀ DI BÉLEM (AMAZZONIA): DAL 1748 AL CORONAVIRUS

[di Antonio Otaviano Vieira Junior[1], UFPA, Brasile] Aprile 2020 nella città di Bélem -Amazzonia brasiliana- dove vivo, paralizzata dal Covid-19.  L’ isolamento prodotto da questa situazione mi ha indotto a recuperare una riflessione dal passato, per affrontare la comprensione della realtà che sto vivendo.  Sono così risalito agli anni 1748-1750, anni dell’epidemia a Bélem[1], cercando di stabilire un dialogo tra questo evento e l’attuale crisi epidemica.

Diritto di parola e di memoria

Sull’epidemia degli anni 1748 – 1750 a Bélem i contemporanei hanno lasciato numerose testimonianze di ciò che essa provocava nella vita quotidiana: all’uscita della chiesa da Sé -la cattedrale- , dopo la distribuzione delle elemosine, al mercato di fronte all’alto prezzo della farina o su come si comportavano con i corpi insepolti sparsi nelle strade fangose. Uomini, donne, bianchi, neri, indios, bambini, vecchi, schiavi, liberi, locali, stranieri… tanti sopravvissero e tramandarono la loro memoria dell’epidemia. Tuttavia, molti di essi trasmisero i fatti solo oralmente, pochi furono realmente ascoltati e ancora meno furono coloro che lasciarono testimonianze scritte dell’epidemia.  In generale i racconti sull’epidemia del 1748 sono stati scritti da cittadini di Bélem proprietari di schiavi indigeni, religiosi e funzionari amministrativi. Molti altri testimoni furono “silenziati”, le loro opinioni non sono state raccolte, non lasciarono traccia scritta, furono solo un sussurro non udito, un lapsus di coloro che controllavano qual era la memoria da tramandare.

In una delle testimonianze trasmesse, sul totale di 3.061 morti causati dell’epidemia soltanto 35 erano stati considerati bianchi. Nella maggioranza erano indios. Indicativamente gli indigeni furono la popolazione maggiormente colpita dall’epidemia, quelli che anche se malati erano obbligati a remare nelle pesanti canoe, spaccare pietre o cacciare per i loro padroni. Intanto, per la riflessione sull’epidemia del passato -come pure su quella odierna-, mi sono ricordato del concetto di Michel Foucault sulla malattia come una costruzione di parole, discorsiva; infatti, la conoscenza della malattia era/è prodotta dalla narrazione, da parole ascoltate o registrate, e in questo processo di costruzione molti furono/sono silenziati.

E per comprendere l’esistenza narrativa della malattia è strategico conoscere chi parla. Così la stessa epidemia può essere considerata una “leggera influenza” (come affermato dal presidente del Brasile) o una “pandemia” (com’è stata definita dall’OMS). Le differenti voci che sentiamo su di essa si avvicinano o allontanano dalla realtà sulla base degli interessi di specifici gruppi sociali, di domanda economica e di progetti politici. Nel vocio del passato sono state -sempre- silenziate le voci dei morti.

La differenza tra le epidemie di epoca storica rispetto a quelle odierne potrebbe consistere nel maggior numero di persone alfabetizzate e nell’accesso alle reti sociali, che ampliano il numero dei racconti e dei narratori sul Covid-19. Ma anche così c’è silenzio, a volte imposto dalle dittature nazionali (Corea del Nord, ad esempio) o semplicemente dovuto a livello di alfabetizzazione, accesso a internet e condizioni di precaria sopravvivenza -come per alcuni paesi africani, villaggi all’interno dell’Amazzonia o senzatetto di New York-. Tra 100 anni chi conserverà le testimonianze orali registrate, come sarà presentata la documentazione dell’attuale pandemia e cosa sarà silenziato?

La produzione non può essere fermata da una “leggera influenza”.

Nella narrativa costruita sulla malattia e riportata nei documenti amministrativi tra 1748 – 1750, si rileva una preoccupazione primaria: l’economia. La morte degli indigeni, in sé, non era un problema. Nei discorsi sull’epidemia il problema che doveva essere affrontato era l’effetto dell’alta mortalità indigena rispetto al calo economico della regione.  L’apprensione per la gravità dell’epidemia rivelava tensioni tra le “fonti ufficiali”: alcune chiedevano di contenere l’impatto del contagio e altre ponevano in primo piano la gravità della crisi economica nella regione.   Per questi ultimi, l’alto numero di decessi era usato a sostegno della richiesta di aumentare il numero degli schiavi indigeni onde contenere le conseguenze negative per l’economia.

La stima dei decessi era variabile, perché c’erano problemi di flusso e qualità dell’informazione. Le cifre dei contagiati avevano ampie oscillazioni, tra 13.246 a 600.00 morti. Oltre alle difficoltà dovute a distanze e dispersione della popolazione in un vasto territorio, un governatore attribuì altre cause per la discrepanza dei numeri: l’interesse dei rilevatori. Un’osservazione molto simile al Covid-19, di cui il presidente della federazione brasiliana afferma: “sembra che ci sia interesse da parte di alcuni governatori a gonfiare il numero delle vittime del virus”[2]. Oggi il calcolo della mortalità da coronavirus finirà col diventare motivo del contendere politico sul territorio, per giustificare azioni politiche populiste come in Brasile e Messico, o per intensificare l’isolamento come in Stati Uniti, Italia e Spagna.

A Belém nel 1749 i gesuiti furono accusati di sminuire la gravità della malattia, (giustamente) per continuare a disporre di molti schiavi indios e poter così continuare a raccogliere i prodotti della foresta, stabilendo un monopolio commerciale. Motivo per cui insistevano nel minimizzare la gravità dell’epidemia ed evitare un eventuale intervento del re del Portogallo a favore dei coloni.

Inoltre, i  Cittadini[3] bianchi approfittavano della gravità dell’epidemia per chiedere al re del Portogallo il permesso di entrare nella foresta e schiavizzare più indios, per attenuare la pressione di Lisbona a favore della fine della schiavitù indigena. A sua volta, il re D. José I, da Lisbona intuì nell’epidemia un’opportunità per legittimare la proibizione della schiavitù indigena: liberare gli indios significava trasformarli in sudditi e incrementare l’uso di manodopera schiava africana in Amazzonia.  Questo provvedimento avrebbe sviluppato il commercio degli schiavi africani, aumentando il guadagno sugli introiti fiscali dai negrieri -che pagavano le tasse alla corona portoghese- e allo stesso tempo avrebbero contribuito a sviluppare il commercio di Cabo Verde (territorio integrante dell’Impero lusitano).

E anche tra coloro che concordavano sulla gravità dell’epidemia, c’erano divergenze su come risolvere i problemi che questa causava: schiavitù o no degli indios. La disputa sul controllo e la legittimazione della schiavitù indigena erano una tensione che accompagnava la città di Bélem dai primi anni della sua fondazione -1616- e che apriva un nuovo capitolo con l’epidemia del 1748.

Questo fa pensare che molte voci e discorsi intorno alla mortalità della malattia potrebbero essere come quelle di Covid-19 per mascherare degli interessi, imporre vecchi disegni politici e approfittare dell’occasione per neutralizzare nemici del sistema al potere. La malattia ha una sua dimensione sociale e politica, essendo più pericolosa per taluni e meno conveniente per altri. In Brasile, Stati Uniti d’America, Ungheria, Messico, Italia, Russia e in tanti altri paesi è dibattuta la questione sull’organizzazione centralizzata delle azioni di contrasto al virus (come dovrebbero essere). Ma queste discussioni si limitano alla malattia in sé, o porterebbero a un’interferenza politica proiettata nel tempo? Come si pone di fronte a questa prospettiva la società civile organizzata? Quale è il ruolo dell’OMS in questa crisi? E cosa significa che gli USA comprino materiale medico prodotto e venduto dalla Cina?

Il passato come interlocutore

Tra le epidemie del 1748 e del 2020 ci sono molte differenze, soprattutto dovute alla maggiore diffusione d’informazioni attraverso i media e le reti sociali, un significativo progresso scientifico e il consolidamento di istanze internazionali di monitoraggio della pandemia. Ma la distanza temporale tra queste epidemie è abbreviata dalla controversia di continuare a garantire il guadagno di pochi anche a fronte della morte di molti. Il passato è l’ombra del presente e dimostra che, dall’invenzione del microscopio ai respiratori artificiali, gli uomini affrontano la sofferenza in nome di vantaggi finanziari e di interessi corporativi.

[1] Il prof. Vieira è autore di innovative ricerche nel campo delle rilevazioni epidemiologiche  sugli indios amazzonici in epoca storica, studi che ha affrontato con puntuale precisione metodologica nel non facile confronto  tra discutibili statistiche demografiche e non chiare diagnosi, al punto da mettere in dubbio l’assodata attribuzione dell’epidemia al morbillo. Probabilmente allo stato delle attuali conoscenze non è possibile scartare l’ipotesi di un’epidemia di “febbre gialla”, comunque incertezza diagnostica e (in)competenza medica non inficiano l’originale approccio “epidemico” come chiaramente si desume dall’articolo: perché il focus della sua riflessione non è tanto -o solo- la patologia in atto, quanto piuttosto l’atteggiamento sbagliato dei governanti in una prospettiva che egli sviluppa giungendo all’attualità del Covid 19. E  in una cornice che prefigura le ecocriticità che tutt’ora devastano  l’Amazzonia (nota del traduttore).

[2] https://bit.ly/3cocYkS (consultado em 30 de março de 2020).

[3] Essere “Cittadino” nel periodo coloniale  significava  avere lo status politico che dava diritto di voto e di essere eletto  nelle amministrazioni/organizzazioni locali, poter avere proprietà ed essere bianco.