[di Massimo Guerra, CIRPS, Coordinatore Unità Rifiuti, Acque e Ambiente] Il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato l’emergenza globale per il coronavirus, definendola “un evento straordinario che costituisce un rischio per la salute pubblica per altri Stati attraverso la diffusione internazionale delle malattie e che richiede potenzialmente una risposta internazionale coordinata … una situazione seria, improvvisa, insolita o inaspettata“.
Straordinario l’evento lo è certamente, e la situazione senza dubbio seria e improvvisa, ma insolita o inaspettata perché? È stata dunque una sorpresa?
Viene facile oggi riprendere la “profezia” di Bill Gates del 2015 (“Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone nei prossimi decenni è più probabile che sia un virus altamente contagioso, piuttosto che una guerra. Non missili ma microbi”), ma fattualmente qual è l’esatta condizione che consente di definire “sorpresa” una pandemia? Certo: alle conoscenze attuali è impossibile prevederne la comparsa, ma sappiamo che non è l’unico ambito nel quale eventi naturali “improvvisi” mietono vittime, e rappresentano una “sorpresa”. Un esempio triste e altrettanto serio, improvviso e inaspettato è un terremoto, la sorpresa si verifica nel momento, ancora non prevedibile, in cui avviene, ma sarebbe un abbaglio definirlo insolito: soltanto negli ultimi quarant’anni in Italia gli eventi sismici hanno causato circa 3.600 morti, decine di migliaia di feriti, centinaia di migliaia privati dell’abitazione, ma in tutto il secolo scorso i morti sono stati circa 135.000. Sappiamo d’altronde che i geologi “si sorprendono” meno della popolazione visto che il territorio italiano è connotato da forte rischio sismico e un diffuso dissesto idrogeologico, ma gli scienziati della terra propongono soluzioni che possano attenuarne gli effetti. E qui sorgono un paio di domande: 1) che cosa produce l’insorgenza di un virus sconosciuto? 2) esistono soluzioni in grado, se non di prevedere, almeno di contenere preventivamente gli effetti della diffusione di un virus? Fornire risposte a questi due quesiti dovrebbe essere un obbligo, soprattutto per una organizzazione internazionale che definisce “insolita” questa pandemia, anche perché prepararsi all’insolito dovrebbe essere la traduzione dei principi di precauzione e di prevenzione. E certamente non dovrebbe essere considerata “inaspettata”, perché qualsiasi evento naturale si manifesti su questo nostro pianeta va considerato, alle attuali conoscenze, alla stregua di normale fenomenologia della vita naturale. Una pandemia è un evento naturale, alla stregua dell’eruzione di un vulcano, di un terremoto, di uno tsunami, di un’alluvione. Della primavera anticipata di questo periodo.
Riprendo da Wikipedia la definizione di virus (dal latino vīrus, -i, “veleno”): “microrganismo acellulare con caratteristiche di parassita obbligato, in quanto si replica esclusivamente all’interno delle cellule di altri organismi. I virus possono infettare tutti i tipi di forme di vita, dagli animali, alle piante, ai microrganismi (compresi batteri e archeobatteri) e anche altri virus”. I virus sono dunque organismi viventi che hanno bisogno, affinché la specie sopravviva e si riproduca, di trovare l’habitat più confacente. Come qualsiasi organismo che viva sul pianeta.
È utile ribadire: qualsiasi organismo vivente: in uno studio pubblicato il 17 maggio 2017 su Science Advances, un gruppo di studiosi coordinati dal prof. Songlin Fei della Purdue University (USA, Indiana) ha pubblicato gli esiti di una ricerca sui movimenti di 86 specie/gruppi di alberi negli Stati Uniti orientali dal 1986 al 2016, notando uno inaspettato spostamento verso ovest nel 73% dei casi. Il motivo: i cambiamenti del sottobosco ai confini significativamente associati ai cambiamenti nella disponibilità di umidità. “I nostri risultati indicano che i cambiamenti nella disponibilità di umidità hanno un impatto a breve termine più forte sulla dinamica della vegetazione rispetto ai cambiamenti di temperatura (…) Le risposte divergenti ai cambiamenti climatici da parte di gruppi specifici per filologia e filogenetica potrebbero portare a mutamenti nella composizione degli ecosistemi forestali, mettendone in dubbio la resilienza e la sostenibilità”. Dunque, i gruppi di alberi si sono spostati, ma “anziché andare verso nord, lontano dai tropici e dal suolo più caldo, come da sempre osservato e ipotizzato, vanno verso ovest”. In un decennio il limite boschivo ha “percorso” 15,4km.
Dunque, un organismo vivente che concepiamo come immobile, va cercando condizioni che gli sono più consone alle sue caratteristiche vitali. Darwin la definisce sopravvivenza della specie (cioè, la spinta a nutrirsi, perpetuarsi, difendersi dai predatori, adattarsi ai mutamenti delle condizioni). È ciò che accade, ad esempio, ai virus dell’influenza che, in presenza di forme di resistenza, mutano e continuano a vivere (e gli scienziati periodicamente adattano i vaccini a queste mutazioni).
Diverse sono le risposte alla frammentazione dell’habitat: alcune specie diminuiscono di numero fino a, in taluni casi, giungere all’estinzione; altre si spostano; altre ancora si adattano alle nuove condizioni. Le Anopheles, vettori dei protozoi parassiti Plasmodium che causano la malaria, si sono adattate prosperando negli ambienti agricoli o urbanizzati sorti a discapito delle foreste. In questi luoghi “nuovi” le persone vanno a vivere, a contatto con molti punti di acqua stagnante, ottima per la crescita delle larve: in Africa, Asia e America Latina si sono registrati diverse esplosioni di casi di malaria (l’OMS per il 2013 ha stimato 584.000 decessi per malaria, soprattutto tra bambini africani) dovuti proprio alla frammentazione dell’habitat, che secondo uno studio del Sustainability Consortium, University of Arkansas (USA), pubblicato su Science nel 2018, è causata principalmente dalla “produzione di merci, inclusi allevamenti intensivi, piantagioni di soia, palme da olio e legname”.
Un drastico cambiamento al quale si assiste in questo periodo, a causa del repentino svuotamento delle località turistiche, ha prodotto risposte aggressive da parte del mondo animale, con cervi (Giappone) uccelli (Spagna) e scimmie (Thailandia) che all’improvviso privi del cibo attaccano gli umani.
La carenza di acqua provocò (i fatti ricorrono a venti anni fa) una vera e propria battaglia tra scimmie e umani in un villaggio del distretto di Mandera, nel nord-est del Kenya: gli abitanti stavano travasando l’acqua da una cisterna, arrivata per provvedere alla carenza idrica dovuta alla lunga siccità, quando le scimmie, armate di pietre e bastoni, hanno attaccato. Gli scontri sono andati avanti per un paio d’ore, si sono registrate dieci persone ferite e otto scimmie morte. Ma già da qualche giorno era stato notato, con grande timore diffuso della popolazione, un insolito atteggiamento aggressivo da parte delle scimmie.
I comportamenti anomali sono indotti da cambiamenti dell’habitat: come dichiara l’OMS nel rapporto sui legami tra salute e ambiente, ad esempio la trasmissione della malattia di Chagas (un’infezione da Trypanosoma cruzi, trasmessa da punture di insetti Triatominae, che provoca una malattia che mina per sempre cuore, stomaco e colon – ne sono interessati circa otto milioni di individui, non c’è vaccino) è associata anche “alla estesa deforestazione e alla dispersione di animali selvatici, che rappresentano la usuale fonte di sangue per le Tratominae”.
Sorprende, perlomeno, che soltanto quattro anni fa, nel Rapporto Preventing disease thorugh healty environments: a global assessment of the burden od disease from environmental risks l’Organizzazione Mondiale della Sanità affermava: questo rapporto “Stimare il peso delle malattie che può essere ridotto adottando misure atte a ridurre i rischi ambientali rappresenta un passaggio chiave nell’identificazione e nella valutazione delle priorità negli obiettivi di azione ambientale. Allo stesso tempo, queste stime supportano l’idea che una corretta gestione ambientale può giocare nella protezione della salute delle persone”.
Ecco perché, a mio parere, l’OMS sbaglia (e lancia un messaggio fuorviante) nel definire “insolita” la pandemia da Covid-19 e a non attivarsi per promuovere in ogni sede, a partire dall’ONU, tutte quelle azioni di predisposizione di piani globali condivisi di contrasto e di accelerata promozione dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile sottoscritti dalla comunità degli Stati.
Perché è di tutta evidenza che migliorare le condizioni ambientali significa contribuire anche al miglioramento della salute delle persone.
Perché dovrebbe essere interesse della specie umana dar ragione a Darwin riguardo all’istinto di sopravvivenza della specie.
Perché gli scienziati hanno accertato che il virus ha origine naturale, una “origine naturale” verosimilmente sottoposta a una qualche mutazione o che si è trovata in una condizione che ha favorito il passaggio dall’origine all’uomo. E questo è tutt’altro che insolito.
Concludeva Bill Gates del 2015: ”Abbiamo investito cifre enormi in deterrenti nucleari, ma abbiamo investito pochissimo in un sistema che possa fermare un’epidemia. Non siamo pronti per la prossima epidemia”. La prossima epidemia è questa, è tra noi.
Infine mi concedo una riflessione sul rapporto uomo-natura. La specie umana è una delle specie viventi su questo pianeta. Dimenticando, grazie a o nonostante lo sviluppo della cultura, la sua essenza naturale, come non hanno fatto le altre specie viventi e quelle scomparse. Cultura intesa come “quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società” (Edward Tylor, Primitive Culture, 1871) o come “l’insieme degli aspetti spirituali, materiali, intellettuali ed emozionali unici nel loro genere che contraddistinguono una società o un gruppo sociale. Essa non comprende solo l’arte e la letteratura, ma anche i modi di vita, i diritti fondamentali degli esseri umani, i sistemi di valori, le tradizioni e le credenze” (Unesco, Città del Messico, 1982). Esistono molte altre definizioni di cultura, ma tutte si muovono nell’ambito concettuale dei sistemi di relazioni che le comunità degli uomini adottano per promuovere la convivenza. La cultura, qualsiasi cultura, origina da un approccio razionale, e in ogni cultura si ritrovano spinte tradizionaliste e progressiste. Ma la cultura, ogni cultura, non può non essere che un sistema dinamico.
Anche la natura è dinamica, e complessa, anche in natura esistono sistemi relazionali tra ambiti differenti. In questo cultura e natura sono identiche.
In che cosa differiscono? La Natura (qui ha senso la iniziale maiuscola) risponde a leggi per l’appunto “naturali”, di causa ed effetto. Non ha quei “sentimenti” di cui la veste la specie umana, non è Madre né Assassina né Crudele. La Natura è. La natura non sa nulla. La natura non è ignorante. La Natura non è che natura. Non ha bisogno di dare un nome a ogni animale o verdura o pietra, montagna, lago, oceano, perché ognuno di essi è Natura. La Natura non ha bisogno di nulla, perché la Natura nulla sa. La natura non conosce il suo nome Natura.
La natura è ineffabile: non sente freddo o caldo, non giudica un rilascio di rifiuti tossici nel suolo, o che la temperatura del mare sta crescendo, o un disastro prodotto da un terremoto o la scomparsa di un’isola e, perché no, di un continente, o la mancanza di ossigeno, o l’esaurimento dei combustibili fossili, o una esplosione nucleare. La Natura risponde alle sollecitazioni, punto. E vive inconsciamente fino al momento in cui tutto, vale a dire il pianeta, scomparirà. Ma, anche in quel momento, come da sempre, e nel tempo seguente (eternità? chi può dirlo!), la Natura sarà.
Quanto alla specie umana (espressione di Cultura”), le è destinato il compito di cercare di comprendere, anche (o forse: unicamente) soltanto per proprio interesse, rammentando che οψις αδελων τα φαινομενα le cose visibili sono uno sguardo su quelle invisibili (Anassagora, V sec. a.C.). Un modo di conoscere che potrebbe salvarci dalle prossime epidemie. E non soltanto.
30 marzo 2020